mercoledì 17 febbraio 2021

SS148 Il lato oscuro della Pontina


La bici è, come sempre, il filo conduttore. Questa volta però quella che segue non è una storia di gioia o di imprese eroiche; si parla di povertà, violenza e sfruttamento ma anche di un uomo che con grande coraggio ha documentato e denunciato questa triste realtà.

Scritto da Raffaele Tedesco per il numero 342 de "la rivista I Martedi ""

NON SOLO NEI FILM WESTERN

 Da ragazzo mi domandavo perché, pur essendo la pianura pontina piena di braccianti indiani sempre sulle loro biciclette, o curvi nei campi, o nelle serre o nelle stalle, poi non ne vedessi mai uno in tribunale a Latina, alla sezione lavoro 1 . O, anche, davanti al giudice civile per dirimere una causa di “buon vicinato”, piuttosto che adire il giudice di pace per un “bernoccolo” alla macchina.
Mai neanche uno. Ovviamente, per quelle stanze di tribunale vuote una risposta c’era, semplice quanto drammatica.

Poi, ho conosciuto chi quelle aule, le piazze, le strade e persino il nostro Parlamento, ha contribuito a riempire di sikh, gli “indiani della terra”. E’ un ragazzone grosso e untantino sgraziato. 

Non proprio un idealtipo di eroe; arruffato nella barba e con una voce decisa ma non incline al comizio trascinante. Si chiama Marco Omizzolo, e più o meno per caso è finito non solo a raccontare quello che nei campi succedeva, ma per un periodo a viverci, a condividere la vita di sommersi e dannati. Ad essere compagni, nel vero ed etimologico significato della parola.   

Doveva essere “solo” una ricerca sociologica, la sua. E’ diventata una storia di riscatto e, perché no, di progresso. Ma quello vero, dove dentro stanno tutti. Forse, solo dal racconto poteva venir fuori il peggio del mondo. Ed ad esso rimanere incatenati, fino all’ultima parola. Marco ci ha raccontato quelli che J. London definirebbe gli abitanti dell’abisso, che vivono in un mattatoio enorme. I“maledetti Okies”, avremmo letto in Furore di J. Steinbeck, “rintanati in umidi fienili annessi alle case coloniche”. 

Marco è entrato in una comunità da dove tutti stavano alla larga. “Il caporalato – dice – infondo è un modello che crea e gestisce consenso”. E genera soldi, tanti soldi. Dove ci sono la violenza e la paura, generata da uomini che “la mattina baciano il figlioletto prima che entri a scuola, e poi vanno a picchiare i braccianti sikh”. Alle sue prime domande su come erano i padroni, la risposta degli indiani era: “Padrone buono”, nonostante fossero sempre chiamati “pecore o animali” dai loro aguzzini. Per potergli aiutare ha dovuto creare un sentimento che è la pre-condizione a tutto: la fiducia.
Lavorava al loro fianco. Andava nei loro templi. La notte nelle loro case ad insegnargli l’italiano, a
tradurgli le buste paga e contratto collettivo di lavoro. Non ha “lavorato per loro, ma con loro”, ama dire, senza collaboratori e supporto, almeno all’inizio. 

Ci ha raccontato che, infondo, il primo elemento rivoluzionario, di rottura, è stato l’insegnamento della lingua italiana, servita a dare le coordinate ai braccianti, al fine di comprendere la loro condizione di “morte viva”. Sapere più parole, cambiare vocabolario, è stata la svolta anche per mutare le loro vite. Vite di persone costretta a lavorare quattordici ore al giorno, per una paga che non va mai oltre gli ottocento euro al mese, se va di lusso. Ma che poteva abbassarsi anche a un euro l’ora.
Marco ha visto gente costretta a doparsi per rimanere in piedi sotto il sole. Versare lacrime, mentre raccontavano alle mogli in India, che loro stavano benissimo in Italia, e in piena salute. Ma intanto piangevano mentre mentivano. Continuando a vivere in stamberghe non degne di essere chiamate case. O, come è successo, chiusi in gabbia, per essere la mattina “liberati”, perché i campi ed il lavoro aspettano. Minacciati mano armata, pistole alla tempia, da chi in casa aveva interi arsenali. Farsi le domande giuste. E’ questo uno dei punti di partenza necessari per capire una realtà, e poi combatterla. A volte, come Marco ci dice, sono domande semplici se non banali. “Perché gli indiani vanno sempre in bici?”, per esempio. Di certo non perché sono i paladini del salutismo. Ma solamente per il motivo che, pur stando da anni nel nostro paese, non hanno mai i soldi sufficienti per comprare un altro mezzo, viste le paghe da fame, e le somme che devono lasciare ai loro padroni (o altri strozzini) per vitto e alloggio. 

Le buste paga sono pure regolari. I soldi no. E poi il ricatto dei documenti, blandito come ammonimento al silenzio. Il rinnovo di una carta di identità poteva costare fino a ottocento euro, mentre il loro “padrone” mangiava anche su questo, non bastandogli le loro vite. 

Omizzolo gli ha portati in piazza. Gli ha aiutati a denunciare. Ma la sua grande soddisfazione è stata quando il suo aiuto non è servito più. Le loro sofferenze avevano “generato il furore”, il coraggio e la consapevolezza di autorganizzarsi in sciopero. Oggi, vive attenzionato dalla polizia ed ha dovuto lasciare la sua casa dopo varie minacce e tre auto bruciate. Da quando, come racconta, oltre dieci anni fa, soccorse Samir, che era caduto dalla bici, in una giornata estiva dal caldo infernale, la sorte ha voluto che Marco non si girasse più dall’altra parte. Ed ha reso evidente ciò che tutti vedono.
Ad una sua interlocuzione con pubblici ufficiali, un alto in grado gli disse: “Dottore, noi gli indiani gli vediamo solo nei film western”. Ecco, a volte non basta la luce nei campi a far vedere lo scempio dell’umanità.


Per approfondire:

Omizzolo, lotta al caporalato

Braccianti e coronavirus: la situazione dei migranti Sikh nell'Agro Pontino